La liberazione di Patrick, lo scorso 8 dicembre, è stata davvero un risultato straordinario.
Come molti sanno, Patrick è anche uno studente dell’Università di Bologna, dove frequenta un Master in Studi di genere; come docente di quella Università mi sono sempre sentita coinvolta e impegnata nel tenere alta l’attenzione sull’ingiusta detenzione di un ragazzo la cui unica colpa è quella di essersi formato e impegnato nel campo dei diritti umani e della giustizia sociale. Oltre alle iniziative dell’Università di Bologna, sono stati tanti gli appelli e gli eventi del Parlamento europeo mirati a chiedere la scarcerazione. Insieme ai miei colleghi mi sono adoperata perché la libertà di pensiero, l’attivismo e l’impegno civico siano valori fondanti e positivi, certamente da promuovere e non da condannare. Patrick oggi è libero, ma la battaglia non finisce qui dato che a febbraio è prevista l’udienza del suo processo e non vogliamo che finisca nuovamente prigioniero della giustizia egiziana.
Se per Patrick le cose sembrano andare nella direzione giusta, non è ancora così per la famiglia Adday, un papà siriano con tre figli, che ho conosciuto durante la missione in Bosnia. Parliamo di una vicenda umana terribile, una delle tantissime storie di vita rimaste impigliate nelle pieghe di flussi migratori complicati e terribili. La storia ha inizio nel 2011, quando il papà e la mamma Adday finiscono nel mirino della polizia di Assad perché non allineati al regime. I coniugi e i tre bambini piccoli decidono di fuggire in Libano e da lì di raggiungere un campo profughi in Grecia. Nel marzo del 2017, avendo ottenuto lo status di “rifugiato politico”, i cinque familiari scelgono di volare verso la Germania, ma per uno scherzo del destino al momento di salire sull’autobus che li avrebbe portati al velivolo, la mamma riesce a salire mentre gli altri quattro componenti della famiglia per pochi minuti rimangono a terra e vengono poi bloccati dalla polizia greca. Da quel momento inizia un’epopea di oltre quattro anni in cui la famiglia Adday cerca di ottenere un legittimo ricongiungimento familiare, senza riuscirci. Decidono di attraversare l’Albania, il Montenegro e arrivano in Bosnia, dopo lunghissime tratte anche a piedi, e dal limbo della Bosnia non riescono più a muoversi. Potete immaginare lo strazio e le condizioni psicologiche soprattutto dei minori che da un giorno all’altro vedono sparire la madre senza giustificazioni.
Sto lavorando alacremente, insieme ai colleghi della missione in Bosnia, per aiutare questa famiglia a vedersi riconosciuto il diritto di ricongiungimento e per ridare ai bambini ormai diventati ragazzi la possibilità di andare a scuola e di studiare. È solo una delle tantissime famiglie che andrebbero aiutate, ma ho scelto di raccontare questa storia, per dare un volto alle migliaia di migranti che affollano la rotta balcanica e la rotta mediterranea, che sono appunto uomini, donne e bambini con un passato preciso e precisi desideri per il futuro.
Rispetto ai cambiamenti rilevanti che l’Unione europea ha saputo compiere nel campo economico e sociale, dopo la pandemia, è ancora molto carente la capacità della stessa Europa di gestire i flussi migratori in modo comune e coordinato e di avere una politica estera e di sicurezza all’altezza.